Addio alle armi 1943-1945: la “catastrofe geopolitica” italiana

Il caos istituzionale e la mancanza di una strategia nazionale segnarono la dissoluzione dello Stato italiano mentre la Resistenza cercò di ridare dignità e autonomia alla nazione

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Catastrofe geopolitica italiana
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Settembre nero: la dissoluzione delle istituzioni nazionali

La tragica serie di vicende che portarono l’Italia prima dentro e poi fuori la Seconda Guerra Mondiale sono state comprensibilmente considerate uno spartiacque per la storia della Penisola. Un momento di rottura – storica e istituzionale – da cui, tra grandi tormenti, prese forma l’Italia contemporanea. Ma si trattò di una rinascita zoppa, un parto quasi inerziale. Invece di cogliere l’occasione per imitare la mitologica fenice e far rinascere lo Stato italiano dalle ceneri del naufragio bellico (cosa che invece accadde, per esempio, in Francia) la situazione che si sviluppò prese l’assetto di una conformazione mal definita e in qualche modo posticcia. Un apparecchiamento provvisorio trasformatosi – nella migliore tradizione italica – in condizione definitiva attraverso una rilettura esclusivamente politica (o a-geopolitica, se si vuole) degli eventi che ha cementato una posizione di subalternità del Paese rispetto a quelle che erano state fino ad allora le sue priorità strategiche. Ma tale declassamento non fu dovuto tanto alla firma dalle onerose clausole dell’armistizio di Cassibile (3 settembre 1943) o del trattato di pace (10 febbraio 1947) ma bensì la traumatica e ignominiosa abdicazione dei vertici dello Stato della condizione di statualità dello stesso a determinare anche la rinuncia a esprimere una postura nazionale. Una abdicazione che, per ovvia logica, si è tradotta nella dissoluzione dello Stato come comunemente inteso.

Dissoluzione che si compì ben lontana dalla Capitale, nel modesto porto di Ortona. Nell’angusto attracco abruzzese era terminata, di fronte all’ostacolo fisico rappresentato dal mar Adriatico, la corsa di Re Vittorio Emanuele III e della sua corte. La corvetta Baionetta, che a Pescara aveva già imbarcato Badoglio e il resto del governo, fu dirottata verso Ortona. La piccola nave divenne in breve l’epicentro dell’ultimo atto di quella fuga disordinata. Nel caos dominavano la paura e il nervosismo, alimentati dalle voci del prossimo arrivo dei tedeschi. Il panico fu tale che, quando la capienza massima fu raggiunta e l’ammiraglio De Courten – ministro della Marina – decretò d’autorità la sospensione delle operazioni di imbarco, gli esclusi scoppiarono in fragorose proteste e non mancò chi cercò di impugnare le armi per strappare un ultimo biglietto per la salvezza. In quella cornice ignominiosa la nave mollò gli ormeggi in tutta fretta e lasciò Ortona alle prime ore del 10 settembre, diretta verso Brindisi, dove il Re avrebbe cercato di istituire un governo. E si dice ‘cercato’ perché, sebbene un esecutivo da lui nominato sia effettivamente esistito sulla carta, è fatto comunemente accettato che un governo non abbia ragion d’essere senza uno Stato da governare. Perito, nella dignità prima ancora che nelle personalità, sulle spiagge di Ortona, lo Stato italiano giaceva come Cristo in colonna, su cui tutti potevano sputare o schiaffeggiarlo e batterlo, come disse il maresciallo Enrico Caviglia che in quelle stesse ore, assunto ad interim il comando della Capitale nel vuoto lasciato dalla fuga reale, consegnava la città alle truppe di Kesselring.

La Resistenza (dello Stato)

All’indomani della dissoluzione effettiva dello Stato italiano, la nazione che questo apparato avrebbe in teoria dovuto amministrare si trovò virtualmente priva di rappresentanza. Egualmente indegni apparivano infatti i due esecutivi che – da Salò e da Brindisi – ne reclamavano nominalmente la guida, mentre nei fatti erano mere appendici delle rispettive potenze di riferimento, virtualmente privi di autonomia politica o militare, spesso appena tollerati e guidati da leader che – nella loro abissale differenza umana e storica – condivisero il tratto di essere delegittimati agli occhi degli italiani per le loro rovinose sconfitte e le loro ignominiose fughe.

Nel vuoto prese forma quel fenomeno collettivo che avrebbe successivamente preso il nome di Resistenza. Che il movimento partigiano si percepisse come una forza armata di liberazione nazionale e si ponesse come obiettivo politico la restaurazione della Patria e del suo Stato appare evidente dalle sue caratteristiche. In primo luogo, militari e ufficiali delle forze armate italiane costituirono le prime forze della resistenza anti-tedesca: il Fronte militare clandestino prese piede proprio a Roma all’indomani dell’occupazione della città e vide tra i suoi protagonisti molti nomi tra chi aveva cercato di organizzare fino all’ultimo la difesa della capitale, come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e l’ex ministro della Guerra Antonio Sorice. In secondo luogo, le forze partigiane dimostrarono una chiara indipendenza politica e militare che né unità repubblichine costituite sotto egida e comando tedeschi né l’esercito co-belligerante agli ordini del governo (più teorico che reale) del cosiddetto “Regno del Sud” furono in grado neanche di abbozzare. Un esempio di tale autonomia può essere letto nella reazione al Proclama Alexander con il quale il comandante delle forze alleate in Italia, Feldmaresciallo Harold Alexander, il 13 novembre 1944 chiese ai partigiani a cessare ogni operazione militare su larga scala a causa del sopraggiungere della stagione invernale. A causa probabilmente di una cattiva scelta di parole e di fraintendimenti politici, il proclama suscitò perplessità e indignazione venendo infatti letto come un invito a desistere nella lotta armata contro l’occupazione tedesca. Ma non fu tanto l’equivoco in sé a essere indicativo, quanto la reazione: il comando del Corpo Volontari per la Libertà, nome ufficiale con cui il Comitato di Liberazione Nazionale aveva designato i partigiani, si prese la cura di emanare ordini che scavalcassero il messaggio di Alexander. Alle brigate partigiane fu dato ordine di non smobilitarsi e anzi di modificare le proprie strategie per adattare la lotta armata alle nuove condizioni militari e climatiche. Tale autonomia riemerse preponderante nelle ultime settimane di guerra, quando le forze partigiane di sforzarono di coordinare un esteso progetto insurrezionale teso a liberare le città dell’Italia settentrionale prima dell’ingresso delle colonne alleate. Liberazione che si tradusse in un autentico tentativo di dare seguito a quella pretesa di riscatto della statualità italiana che aveva animato il movimento fin dai suoi albori. Il Comitato di Liberazione Nazionale provvide infatti alla nomina diretta tanto dei funzionari civili quanti di quelli militari (per esempio, a Milano nelle figure rispettivamente del sindaco Antonio Greppi e dei prefetti Riccardo Lombardi ed Ettore Troilo). Allo stesso tempo il CLN si comportò come un tribunale di Stato, conducendo processi ed emanando sentenze, come quella sulla base della quale sarà fucilato Benito Mussolini. Pretesa che però non poté reggere al peso della Storia, concludendosi con il disarmo delle milizie irregolari ordinato dalle forze alleate il 2 maggio 1945 prima e con la rimozione dei prefetti di nomina partigiana dopo, a causa del troppo profondo abisso in cui lo Stato italiano era stato precipitato dal fascismo in confronto alle Potenze alleate.

Il fascismo e la “catastrofe geopolitica” italiana

Il giudizio politico – ancorché fondamentale – ha finito per offuscare quello geopolitico, che per sarebbe forse persino più centrale nel trattare la traiettoria storica di un Paese. Tra il fumo e gli spari della Seconda Guerra Mondiale, si è infatti consumato qualcosa di più ampio della tragedia umana e umanitaria che quel conflitto ha rappresentato per le popolazioni coinvolte. Il fascismo si è rivelato infatti una “catastrofe geopolitica” per l’Italia, per rubare la famigerata espressione adoperata dal presidente russo Vladimir Putin per descrivere la fine dell’Unione Sovietica[1]. In quell’occasione il leader del Cremlino non stava esprimendo un banale giudizio nostalgico sul comunismo sovietico, bensì si riferiva naturalmente al passaggio storico, alla cesura geopolitica consumatasi al momento dello scioglimento dell’URSS, cioè alla fine di quell’impero russo che proprio sotto la bandiera rossa aveva trovato la sua massima estensione dai tempi della sconfitta di Napoleone. Le radici di questa “catastrofe” si concentrano in particolare su due aspetti. In primo luogo, l’inadeguatezza e l’incompetenza del regime fascista nella sua pretesa di gestire quel rango di Potenza che l’Italia già possedeva al momento della Marcia su Roma, avendolo faticosamente guadagnato come uno dei ‘Quattro Grandi’ della Conferenza di Versailles. È difficile infatti non cogliere la discrepanza tra la propaganda e la realtà di un Paese che, dopo 18 anni di regime a parole militaresco, si presenta nel 1940 come una nazione largamente agraria e priva di quel patrimonio industriale necessario a competere dignitosamente con le altre Potenze in una grande guerra meccanizzata di massa. Prima ancora che nelle decisioni errate e negli sbagli tattici, commessi dai singoli, il fallimento del fascismo sta qua: nell’aver portato alla guerra un Paese impreparato dopo aver passato i precedenti due decenni a legittimare la propria posizione di potere con la promessa opposta. A titolo di confronto, si pensi invece agli sforzi pagati dall’Italia nei trent’anni precedenti la Grande guerra per unificare un Paese disunito, dargli una coscienza nazionale, recuperare e neutralizzare la potenziale scissione interna coi cattolici, incorporare il Meridione in ribellione, costruirsi una posizione diplomatica che servisse gli interessi nazionali, gettare le basi di un apparato industriale centralizzato. Sacrifici ripagati con l’incredibile prova di resistenza sopportata nella Prima guerra mondiale, conflitto non a caso conclusosi con il conseguimento di tutti gli obiettivi strategici italiani: la scomparsa del proprio nemico atavico (l’Impero austro-ungarico), la conquista del predominio sull’Adriatico, la messa in sicurezza dell’intero arco alpino e dei suoi valichi come cintura di protezione dell’heartland industriale padano.

Il tema del successo strategico della Grande Guerra permette di introdurre la seconda ragione per cui il Fascismo è da considerarsi una “catastrofe geopolitica”. Cioè il fatto che, per le sue pretese sconsiderate, l’Italia non solo perse i galloni di potenza conquistati nelle trincee del Carso, ma sacrificò l’interezza delle sue linee rosse strategiche. In primo luogo, la perdita totale del controllo sul nostro estero vicino ovvero sia di quella ampia fascia che dalla Sardegna va fino a Trieste passando per lo stretto di Sicilia. Una perdita avvenuta non solo per mutilazioni territoriali, ma anche per le distruzioni patite dalla nostra già precaria capacità industriale e dal sacrificio della nostra marina, che prima della guerra era numericamente la quinta al mondo. Sul versante adriatico poi, la cessione alla Iugoslavia dell’Istria e della Dalmazia rimisero in discussione la nostra posizione di sicurezza nell’Adriatico così faticosamente conquistata dopo mezzo secolo di battaglie. Lo stesso porto di Trieste fu per molti anni in dubbio e venne sottratto al controllo italiano per essere affidato a una amministrazione speciale alleata, colpendo al cuore lo stesso mito dell’unificazione nazionale finalmente conseguita nel 1918. Anche se poi la questione triestina si concluse a vantaggio di Roma, la situazione della città adriatica va letta in parallelo con la contemporanea questione altoatesina e le rivendicazioni accampate in sede di trattato di pace dalla Francia sulla Valle d’Aosta e altri territori italiani contigui. Si trattò, in quel frangente, di un vero e proprio arco di pressione geopolitica che ricalcava quello alpino e minacciava di privare l’Italia del controllo delle vie di accesso terrestri ai suoi territori. Mentre queste crisi si risolsero infine in modo tutto sommato positivo per l’Italia, la messa in discussione della posizione alpina italiana rende evidente la posizione di grande debolezza in cui versava Roma in quegli anni. Infine, ma non meno importante, queste condizioni di fragilità non possono non collegarsi con l’occupazione militare – prima esplicita, poi normalizzata con la creazione delle basi dell’Alleanza atlantica – subita dalla Penisola per la prima volta nella sua totalità dalla conclusione delle guerre napoleoniche.

Lo Stato “non geopolitico”

Lo sbocco tragico del fascismo – il cui esito non fu legato a semplici e sfortunate circostanze, ma al fallimento nell’adeguata preparazione del Paese alla sfida bellica che il regime stesso si era posto come obiettivo – ha comportato un rovesciamento geopolitico per l’Italia che ha inciso molto di più sui destini della Penisola del cambiamento semplicemente politico. La continuità politica, amministrativa e strutturale tra l’Italia repubblicana e quella fascista infatti è stato consistente, così come lo fu quella tra l’Italia pre-fascista e quella mussoliniana. Non così invece lo fu quella geopolitica, che vide Roma passare dall’essere una delle principali potenze europee vincitrice della Prima guerra mondiale alla perdita del proprio estero vicino e la trasformazione in una non-potenza retta da un informale triumvirato di forze politiche espressione rispettivamente degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e del Vaticano. Tre attori che, per ragioni diverse, avevano interesse a promuovere una lettura degli eventi che promuovesse uno Stato “non geopolitico”. Interpretazione politica che ha finito tuttavia non solo per far perdere alla società italiana coscienza di sé e della propria spazialità, ma ha anche comportato la trasfigurazione dello stesso racconto dell’antifascismo, trasformando la celebrazione di un movimento politico-militare armato come quello partigiano, assimilabile ai movimenti di liberazione nazionale visti in azione ad altre latitudini, in una sorta di costola della più vasta galassia pacifista e non violenta, a cui è antitetica per ovvie ragioni di metodo e di obiettivo. Assimilazione figlia di una lettura politica e non geopolitica che ha impedito al Paese di comprendere e digerire il trauma e ha diviso nella sua non accettazione la memoria nazionale. Per giungere così al paradosso di vivere come una sconfitta una guerra che Roma aveva vinto sia politicamente che strategicamente, cioè il primo conflitto mondiale, e celebrare invece la conclusione di una guerra che l’Italia perse disastrosamente, come la seconda guerra mondiale. Gli eventi intercorsi tra il 3 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 rappresentano dunque una ferita tutt’ora aperta, che fintanto che continuerà a essere curata in modo sbagliato seguiterà a sanguinare, dividere e contrapporre una comunità nazionale che non hai mai pienamente interiorizzato la dissoluzione dello Stato avvenuta in quei tragici giorni.


[1] Dal discorso annuale sullo stato della Federazione Russa, 25 aprile 2005.

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