“La morte della patria” reloaded

L’Italia repubblicana è nata morta? Sarebbe ingeneroso verso gli italiani, ma la questione italiana delle questioni resta aperta e le origini del problema risiedono nella Guerra civile (1943-1945), prima ancora nel Risorgimento

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Nel 1996, lo storico italiano Ernesto Galli della Loggia pubblicò un libro destinato a non passare, complici anche la rotondità icastica del titolo e la provocazione intelligente contenuta nelle sue pagine: La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica.[1

Nello studio veniva avanzata l’ipotesi ‒ eminentemente storiografica, ma con incursioni naturali che si potrebbero rubricare addirittura all’ambito della filosofia della storia ‒ secondo cui ‒ riassumo, assumendomi la responsabilità del riassunto ‒ lo scontro immane che divise gli italiani fra gli eventi-simbolo dell’Armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943, e la Resa di Caserta, il 2 maggio 1945, vale a dire il periodo denominato «Guerra civile italiana», avesse tanto profondamente lacerato il tessuto sociale e umano del Paese da non essere ‒ sostanzialmente ‒ in grado di produrre un Paese maturo all’indomani della guerra. Che quella lotta fratricida capace di spezzare in due gli italiani ‒ sia gli italiani come popolo, sia ogni singolo italiano ‒ ipotecò pesantemente il futuro in negativo. Che quella “metà” di italiani alla ricerca, a tutti i costi, del salvataggio, o del rilancio, dell’esperienza fascista, o di quanto ne restava, e quella “metà” di italiani decisi a cancellare ogni resto dell’esperienza fascista, compreso quanto ne restava, finì per sbriciolare l’ethos nazionale italiano stesso. Insomma, che la divisione incolmabile che straziò l’Italia allora in quelle due “metà” minò sul nascere ogni possibilità di ricostruire il Paese per davvero.

«Il sentimento di una vera e propria “morte della patria”», scrive Galli della Loggia all’inizio stesso di quel libro, entrando subito in argomento, «fu, infatti, ciò che oggettivamente provò, in quel biennio terribile e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo emotivo, custodisse […] l’idea di nazione».[2]

L’Italia repubblicana, insomma, nata da una guerra civile, si sarebbe sorpresa poi incapace di elaborare un nuovo concetto di patria, con tutto l’indotto evidente nell’inabilità di articolare una concezione adeguata di interesse nazionale e di visione strategica sugli scacchieri geopolitici, finendo così per andare a rimorchio di potenze regionali o internazionali più abili, avvedute e motivate nel costruire valore nazionale e relazioni sovranazionali. Oppure per subirne le politiche imposte con la forza o la moral (economic?) suasion.

La debolezza, se non persino talora il fallimento, del “sistema Italia” sarebbe, cioè, la diretta conseguenza della frattura da cui l’Italia stessa, per come la si conosce oggi, sarebbe nata, essa stessa conseguenza della cesura ‒ nel continuum della storia d’Italia e nell’ethos degli italiani ‒ che era stata prodotta dall’era fascista.

Tre “popoli”

La tesi esposta da Galli Della Loggia è di quelle che spronano ‒ benemeritamente ‒ alla ricerca continua e alla continua verifica. Una delle domande centrali che essa stessa pone oggi è se tale tesi sia ancora adeguata agli scenari e alle dinamiche dell’Italia contemporanea, a quasi tre decenni dalla sua prima elaborazione, in uno panorama oggi completamente diverso, in cui forse la storia “ha accelerato”, del resto caso specifico della domanda se tale tesi sia in assoluto mai stata adeguata a descrivere il reale.

Per iniziare a rispondere occorre anzitutto chiarire i termini della domanda. È per esempio accurato affermare che la Guerra civile italiana divise gli italiani in due “metà”? Forse no. Davanti alla Guerra civile, infatti, gli italiani si divisero almeno in tre “popoli”.

Come la storiografia non ha smesso di dimostrare, la sollevazione degl’italiani in massa contro ciò che restava del fascismo non avvenne: non avvenne, appunto, in massa. All’origine di questa scoperta vi è almeno il libro che ha incrinato una vulgata diffusa (anche con intenti politico-ideologici), cioè Rosso e Nero dello storico Renzo De Felice,[3] fondato del resto sulla ricerca pluriennale (e suo coronamento?) condotta dallo studioso reatino sul fascismo italiano.

La maggioranza degl’italiani, appura cioè De Felice, non prese parte alla Guerra civile. Non lo fece perché non si riconobbe né nelle ali estreme delle forze politico-militari che allora si contrapposero in armi sul territorio dell’Italia Settentrionale, ossia le formazioni della Repubblica Sociale Italiana e le formazioni partigiane a egemonia socialcomunista, né nel più ampio ventaglio d’ideologie che, un po’ su tutto il territorio italiano, si opposero a fascisti italiani e nazionalsocialisti tedeschi.

La «zona grigia»

Non significa, questo, che non vi furono italiani che si riconobbero, anche con trasporto e con convinzione, in quelle opzioni (non solo fascismo e socialcomunismo), ma che la maggioranza degl’italiani occupò invece una vasta «zona grigia» intermedia, che non scelse né l’una né l’altra parte, che certamente non era fascista così come altrettanto certamente non era comunista, che comunque non era neppure liberale in senso stretto, che con la monarchia sabauda, tra “amore e odio”, non aveva ancora risolto tutti i conti, che di fatto era in gran parte di estrazione cattolica e persino cattolico-conservatrice, popolare e aristocratica assieme, che non rimpiangeva il regime passato ma che sicuramente diffidava del nuovo ignoto, e che, dopo il 1946, forse nutriva pure qualche dubbio persino sulla forma istituzionale repubblicana.

Oltre a ciò va considerato (e non è una considerazione marginale) come nel frangente drammatico della Guerra civile gli italiani pensassero soprattutto a sopravvivere, sia materialmente sia in nome di una idea di nazione certamente vaga ma non per questo non radicata, la quale però non trovava appunto espressione compiuta e coerente in alcuna delle proposte politiche e ideologiche disponibili, aggiungendo fame politico-culturale a fame fisica, dunque inconsapevolmente testimoniando che davvero, anche nei frangenti più difficili od oscuri, l’uomo vive sia di pane sia non solo di esso.

Ci sarebbe peraltro da speculare se non germini proprio forse allora, nel disastro della Guerra civile e nell’incapacità delle contrapposizioni di quel momento storico a rappresentare il popolo italiano nel suo intero (che non è soltanto la somma delle sue parti), quella disaffezione degli italiani verso la politica, e in ultimo persino verso la res publica, che oggi è diventata endemica e chenei decenni della cosiddetta «prima repubblica» è stata solo mascherata da afflussi elettorali enormi, ma forse non corrispondenti a un vero senso comune della patria, ovvero forse più indotti da fattori esterni, e talora contingenti ovvero dialettici, che da un senso civico profondo, se con «senso civico» si dovesse intendere una qualche fedeltà morale all’idea (nella pratica una realtà senza alternative) che la vita politica dei cittadini sia esaurita dalla e nella politica dei partiti a decisiva base ideologica.

Senza Patria

Quella «zona grigia» incarnata dalla “terza Italia” non fascista e non definita dalla Resistenza socialcomunista ha certamente il merito di avere offerto al Paese un contributo fondamentale di anti-ideologizzazione, ma al contempo evidenzia l’incapacità della rappresentazione dicotomica del crogiuolo della nuova Italia repubblicana (cioè proprio la Guerra civile) a descrivere il reale storico italiano. Una componente cioè sfugge a tale dicotomia, e questa componente, se appunto da un lato contribuisce a rendere ragione della salutare moderazione di un “terzo” degli italiani facendone un elemento culturale importante della nuova Italia repubblicana (per esempio impedendone nuove involuzioni dispotiche), dall’altra non consente di leggere la stessa secondo lo schema manicheo che vorrebbe, una volta sconfitti i nemici fascisti, descrivere la nuova Italia come il prodotto coerente di un senso comune della patria.

Se questo è vero ‒ e la storiografia intesa come lo studio e il racconto di eventi che si dipanano lungo archi temporali a cui si dà il nome di «storia» è per definizione semper reformanda, dunque mai paga dei cliché benché sempre rispettosa dei dati acquisiti ‒, la morte della patria avvenne durante la Guerra civile per l’incapacità di quello scontro epocale di descrivere l’ethos degli italiani né nelle posizioni che si scontrarono né nell’idea stessa di scontro.

Dal crogiuolo della nuova Italia repubblicana, insomma, manca una parte, e un numero, significativo di italiani. È per questo che all’Italia del dopo è mancato il senso di se stessa? Per questo agli italiani manca ancora un sensus patriae radicato prima ancora che condiviso? Se così fosse, la ragione risiederebbe nel deficit di rappresentanza e di appeal che le ideologie moderne, divisesi durante la Guerra civile e comunque alla fine dell’era fascista alle soglie dell’alba repubblicana, hanno evidenziato, con gli italiani che molto presto si sono chiamati fuori, poi fuori sempre più restando. Una situazione a metà fra un’Aventino autoconvocato e un non expedit autoimposto da verificare sempre, ma che impone di tenere ancora oggi in seria considerazione l’ipotesi della «morte della patria».

La cesura risorgimentale

Resta però da comprendere perché, di fronte alle proposte di nuovo senso civico alternative che si affacciarono durante la Guerra civile e comunque alla fine dell’era fascista, una parte importante di italiani mancò all’appello.

Certamente le radici del problema sono da ricercare nell’epoca precedente, di cui la Guerra civile fu epilogo tragico. Cioè nell’era fascista. È insomma ipotizzabile che, a fasi alterne e in tempi diversi, il consenso di cui il regime fascista ha indubbiamente e notoriamente goduto, e su cui in certi momenti della propria avventura ha lucrato, celasse già l’insoddisfazione italiana?

Lo dimostra almeno un dato su cui storiografia e filosofia della storia hanno iniziato a interrogarsi seriamente: la stratificazione del fascismo, un fenomeno che rende impossibile descrivere il fascismo come una realtà monolitica, ma che pure inquadra il fascismo almeno come sovrapposizione di aspirazioni e di attese diverse, non sempre in armonia fra loro. Quel che qui interessa è sottolineare da un lato ciò che componenti diverse del fascismo hanno voluto e creduto di vedere nel fascismo stesso, dall’altro la frammentazione interna del fascismo, volto di una incapacità strutturale proprio del fascismo di rappresentare l’interesse degli italiani, da cui quindi l’esplosione del problema in tutta la propria dirompenza durante la Guerra civile.[4]

Ma ciò non risponde ancora alla domanda: la sospinge ulteriormente indietro nel tempo italiano. Forse fino alla prima, enorme guerra civile con cui gli italiani hanno dovuto confrontarsi, uscendone lacerati: il Risorgimento.[5]

La vasta epoca del secolo XIX che la storiografia identifica con quel nome produsse infatti una spaccatura netta nel popolo dell’Italia. Produsse anche, fra le sue schegge deflagranti in varie direzioni, da un lato il tentativo del fascismo di ricomporre il dissidio richiamandosi al Risorgimento e dall’altro il richiamarsi speculare a esso anche delle forze antifasciste, in entrambi i casi fornendo esempi mitizzati della realtà storica.[6]

Ma quel richiamarsi non ha fatto però che perpetuare la divisione fra gli italiani, i quali, insoddisfatti, hanno probabilmente cominciato allora i propri primi Aventino e non expedit. Non tutti, evidentemente, ma una loro parte importante sì. Così importante da far pensare che la «morte della patria» avvenuta durante la Guerra civile italiana 1943-1945 sia una morte seconda che in qualche maniera pone le radici nei conti non risolti dell’Italia con la prima morte di sé.

Concludere che la patria italiana sia nata già morta sarebbe forse ingeneroso verso gli italiani, di qualsiasi schieramento, ma rimette al centro la vera questione italiana: la questione italiana di tutte le questioni italiane, ovvero la riconciliazione nazionale, mai sul serio avvenuta. Mai sul serio tentata dal Risorgimento a oggi? Se i tentativi restano solo quelli ideologici di rileggere, non solo la storia patria ma pure la riconciliazione nazionale sempre e solo ad usum delphini, il problema non farà che perpetuarsi senza mai risolversi. Se invece si proverà a riconciliare la memoria storica dell’Italia anzitutto condividendola così come essa si manifesta all’osservatore, cioè senza censure e convenzioni a escludersi vicendevolmente, senza tacere di glorie ma pure di misfatti, di errori e di punti di forza, allora forse la patria italiana potrà cominciare a rinascere e con essa il senso vero degli italiani per l’Italia.


[1] Cfr. Ernesto Galli Della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996.

[2] Cfr. Ibid., 3a ed., 2003, p. 3.

[3] Cfr. Renzo De Felice (1929-1996), Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995.

[4] Cfr. per esempio Ernst Nolte (1923-2016), I tre volti del fascismo, trad. it., Sugar, Milano 1966, ripubblicato come Il fascismo nella sua epoca, Sugar, Milano 1993.

[5] Cfr. almeno la dicotomia descritta, come in un reportage in presa diretta, da Patrick K. O’Clery (1849-1913, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, n. ed., a cura di Mario Di Palma, Ares, Milano 2017.

[6] Del Noce, in Il problema dell’ateismo (con un saggio di Massimo Cacciari, Il Mulino, Bologna 2010, 1a ed. 1964), ha parlato di «apparire di una nuova forma di mitologismo» (p. 599) tipica della cultura moderna, sottolineando l’uso dell’espressione non nel senso filologico dell’espressione «mito» (cfr. pp. 609-610).

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