
La conquista americana del Pacifico
L’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 segnò l’inizio della Guerra del Pacifico. L’espansione militare del Giappone, che mirava a controllare un’ampia area nell’Oceano Pacifico e in Asia orientale, venne neutralizzata dalla poderosa controffensiva americana. La superiorità militare-industriale degli Stati Uniti prevalse sugli sforzi nipponici e attraverso battaglie decisive come quella delle isole Midway e di Guadalcanal, portò progressivamente gli statunitensi a spingersi sempre più vicino alle coste asiatiche. Con la sconfitta del Sol Levante, l’esito della guerra civile in Cina e la separazione delle due Coree, nasce l’attuale ordine oceanico a guida americana.
Le 3 catene insulari di contenimento
Nel 1951, durante la Guerra di Corea, il politico e analista di politica estera John Foster Dulles propose per la prima volta di utilizzare isole e arcipelaghi sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati per creare una serie di barriere marittime capaci di contenere l’Unione Sovietica e la Cina comunista. Questa proposta, allora di secondaria importanza nella sfida contro i sovietici,con l’acuirsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina nell’ultimo ventennio è diventata uno dei paradigmi strategici chiave della politica americana nell’Oceano Pacifico.
La prima catena insulare di contenimento passa per Taiwan, le isole Ryukyu, le Filippine e il Giappone meridionale, e rappresenta la barriera immediata contro l’accesso diretto della Cina all’oceano aperto. La seconda catena collega il Giappone con l’Australia settentrionale, attraversando Guam e le isole Marianne settentrionali. La terza catena si estende fino alle Hawaii e alle Samoa americane, assicurando la profondità strategica necessaria a rendere la costa occidentale americana e quindi il nucleo geostrategico degli Stati Uniti inattaccabile.
Il sogno cinese passa per l’Oceano Pacifico
Il Partito Comunista Cinese ha stabilito il 2050 come anno simbolico per completare il processo di “risorgimento nazionale”, ovvero il ritorno della Cina al pieno status di grande potenza. Questo obiettivo coincide con il superamento definitivo del trauma storico noto come “secolo dell’umiliazione”, periodo compreso tra la sottomissione della dinastia Qing alle potenze occidentali e la fondazione della Repubblica Popolare Cinese.
Questo processo non può essere portato a compimento senza la riunificazione di Taiwan con la terraferma. L’isola, oltre alla sua importanza simbolica, è indispensabile alla Cina per aprirsi alle acque oceaniche e quindi aspirare a diventare una potenza marittima di prim’ordine.
La Cina ha fatto grandi passi in avanti per recuperare la distanza con gli Stati Uniti dal punto di vista navale, ma deve fare ancora tanta strada per rivaleggiare con le capacità militari americane. Negli ultimi decenni, la Cina si è dotata della più grande industria cantieristica mondiale, arrivando a produrre oltre il 55% del tonnellaggio mondiale, ma ha un grave deficit tecnologico e di esperienza bellica, e non ha alleati o paesi amici capaci di sopperire a questa mancanza.
A Pechino sono consapevoli della dimensione del confronto con gli Stati Uniti. Se, in un futuro indefinito, Taiwan dovesse essere con le buone o con le cattive riconquistata, gli americani e i loro alleati si riassesterebbero poche miglia nautiche più indietro, pronti a impegnarsi ancora e con maggiore vigore contro ulteriori iniziative espansionistiche cinesi.
La sfida della Cina è oceanica: riuscirà il gigante asiatico a trasformarsi in una potenza marittima, a rompere le catene che lo imprigionano e a contrastare gli avversari asserragliati a un tiro di schioppo dalle sue coste? In base all’attuale equilibrio delle forze, il futuro del sogno cinese rimane incerto.