Trump ridefinisce il GOP: l’evoluzione del conservatorismo americano

Donald Trump e la metamorfosi del GOP: la fine dell’élite conservatrice e l’emergere di un nuovo conservatorismo populista

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Geopolitica

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Il 13 luglio scorso sul palco di Butler, in Pennsylvania, l’eco degli otto spari esplosi da Thomas Matthew Crooks sanziona definitivamente il successo di Donald Trump nel fagocitare l’establishment del Partito repubblicano e rifare a propria immagine il conservatorismo americano.L’immagine del leader ferito, indomito, consacra infatti la vittoria di quel modello personalista su cui Trump ha costruito la sua scalata. Sbaragliando quell’élite politica tradizionale, non solo conservatrice, che si era illusa prima di poterne orientare le scelte e poi di potersene sbarazzare sull’onda dei problemi legali seguiti all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Tale strategia era tatticamente comprensibile: evitare un confronto diretto con una figura ancora molto popolare presso la propria base e lasciare che morisse di morte naturale, per autoconsunzione. Ma questa visione ha fallito nel comprendere che la ragione stessa del successo del movimento “MAGA” (Make America Great Again) era la repulsione di una crescente parte della società americana verso quella struttura elitaria che aveva partorito questo wishful thinking. Al contrario, Trump ha saputo mobilitare una base scontenta verso l’attuale sistema e trasformarla in un movimento politico organizzato e ideologicamente coerente, interno ma alternativo al partito stesso ormai completamente caratterizzato da questo processo di cannibalizzazione. Fin dal suo debutto politico, Trump non ha fatto mistero del suo disprezzo e della sua ostilità verso quegli apparati conservatori – incarnati, per esempio, dalle potenti famiglie Bush, Romney e Cheney – che a suo dire avevano tradito il sogno conservatore e trascinato l’America in una crisi senza orizzonte. Sicuramente il personaggio ha potuto contare su grandi vantaggi strutturali, dalla propria ricchezza personale – che lo ha reso virtualmente autonomo dall’oligarchia dei finanziatori privati – ai propri trascorsi televisivi che gli hanno offerto una marcia in più nell’indirizzare il dibattito pubblico. Ma il maggior punto di forza di Trump è stato il suo innegabile intuito politico, che gli ha permesso di comprendere per tempo i grandi cambiamenti che stavano avvenendo nell’anima americana. La sua è stata la più fortunata scommessa politica della recente storia statunitense: il tycoon ha saputo capire, gestire e indirizzare lo smarrimento indotto dalla crisi dei mutui del 2008 e trasformarlo in una narrazione politica efficace, almeno nella rappresentazione. Vedi, per esempio, il grande ritorno delle esigenze dell’America rurale al centro del dibattito politico dopo decenni passati nel dimenticatoio, frutto di rivoluzione politica lanciata – ironicamente – da un magnate edilizio di New York. Trump può dire oggi di aver vinto quella scommessa, e il premio in palio è stato il controllo del Partito repubblicano. La cui base ha con il trumpismo trovato una nuova ragion d’essere, nel quadro della emarginazione della vecchia guardia conservatrice. Questo cambio è ben esemplificato dalla scelta del giovane 39enne J.D. Vance come candidato vicepresidente nel 2024. A differenza del 2016, infatti, Trump non corre in un ticket frutto di un compromesso con la classe dirigente del partito, ma ha scelto lui stesso il cavallo su cui puntare. L’arrembante Vance non è soltanto, infatti, un suo giovane alleato politico, ma è anche espressione di quelle zone del Paese che prima di tutte, più di tutte, hanno trovato in Trump l’alfiere delle loro istanze e della loro identità. Intellettuale e uomo d’affari di successo, ma anche veterano del secondo conflitto iracheno deluso dall’inaffidabilità dimostrata dalle istituzioni in tale frangente, cresciuto tra Ohio e Kentucky, in quelle zone depresse una volta polmone d’America, Vance incarna quell’America delusa dalla globalizzazione difesa dal Partito democratico. Un modello visto come incompatibile con l’identità americana e nocivo alla sua prosperità economica, secondo la lettura resa preminente da Trump. Questa visione si è rivelata profondamente radicata e di grande impatto, al punto da indurre gli stessi democratici – durante l’amministrazione Biden – a cercare di offrire risposte alle necessità di queste comunità (vedasi riforme spartiacque come il CHIPS Act e l’IRA Act), senza però riuscire a intaccare seriamente l’appeal dei repubblicani MAGA su di esse. L’incomprensione dei democratici è stata quella di concentrarsi sul lato materiale del disagio di queste aree, puntando su provvedimenti effettivi – in termini di investimenti – ma dilazionati temporalmente. Laddove, invece, i trumpiani hanno colto l’emergere di una faglia prima di tutto emotiva e culturale, che si è coagulata nell’opposizione al modello cosmopolita ed ecumenico (secondo la storica “missione evangelizzatrice americana”) portato avanti dal mondo liberale statunitense. Il rigetto del mondo organizzato secondo le regole della globalizzazione o, perlomeno la consapevolezza dell’entrata in crisi di quest’ultimo, incoraggiano così in questa parte di elettorato la più sovversiva delle suggestioni: che un leader all’apparenza anti-establishment e svincolato dai lacci e lacciuoli dell’ortodossia politica sia il tipo di capo carismatico necessario in un sistema che appare incapace di seguire le sue stesse regole. Molti oppositori di Trump hanno per lungo tempo commesso l’errore di ritenere che il suo agire sopra le righe, fuori da ogni regola, fosse una trovata elettorale o, peggio, qualcosa che lo avrebbe prima o poi condannato alla sconfitta politica. Tuttavia, ciò che invece ha dato forza a questo tipo di leadership è stata la crescente percezione tra gli americani che la crisi del Paese rendesse per l’appunto necessario il superamento delle tradizionali regole d’ingaggio. La disinvoltura spiazzante e provocatoria impiegata da Trump come tattica e strategia ha raccolto consensi presso molti americani sia quando utilizzata in politica estera sia quando vi si è ricorso per tematiche domestiche. Per esempio, l’approccio non ideologico nei confronti di soggetti internazionali controversi, quali i Talebani afghani, le petromonarchie del Golfo o il regime nordcoreano di Kim Jong-un, gli ha garantito margini negoziali che sono stati apprezzati dall’opinione pubblica quando si sono tradotti in effettivi successi di politica estera (quali il ritiro dall’Afghanistan o gli Accordi di Abramo tra Paesi arabi e Israele). Oppure, quando nel 2019, rispondendo alla crisi migratoria che incombeva sul confine messicano, Trump non esitò a bypassare il Congresso ostile per dichiarare l’emergenza nazionale avvalendosi di una prerogativa presidenziale straordinaria. Nessun presidente aveva mai pensato prima di poter impiegare in modo così disinvolto i poteri d’emergenza per risolvere quella che era una crisi politica e un braccio di ferro tra poteri dello Stato. Ma è proprio nell’ecosistema dell’emergenza dilagante e dell’uomo forte chiamato a risolverla che Trump trova il proprio naturale biotopo. La grande differenza di lettura tra i detrattori del tycoon e i suoi sostenitori riguarda, infatti, un’inversione del rapporto causa-effetto: per i primi, la repubblica americana è in crisi a causa della sua figura, che sta sottoponendo il sistema costituzionale a un crescente stress meccanico; per i secondi invece, la comunità statunitense era già in crisi aperta prima dell’arrivo di Trump sulla scena, la cui irruzione si è resa necessaria per salvare l’America dal baratro disfunzionale e identitario in cui stava cadendo. Questa lettura “salvifica” alimenta non a caso, in una crescente parte della galassia intellettuale conservatrice, paralleli con la figura di Giulio Cesare e la crisi del sistema repubblicano romano che aprì a costui la strada del potere. Il paragone con un’organizzazione politica dominata da élite dedite unicamente a conservare il proprio status (i senatori patrizi) e incapace di rispondere alle crescenti sfide interne ed esterne suscita un profondo appeal su un mondo repubblicano posto di fronte alla crisi dell’impero (non dichiarato) americano. Facilitare l’affermazione di una leadership accentratrice che riporti un principio d’ordine, prima di tutto identitario, salvaguardando l’idea di America col sacrificio del suo decadente ordine politico appare come l’unica via di uscita a un movimento che non ha mai nascosto le sue pulsioni autoritarie. Questo processo non è, tuttavia, limitato a sacche di elettori insoddisfatti, ma miete crescenti consensi anche tra pezzi dell’establishment tradizionale – accademico, giuridico, militare – ormai preoccupati più dallo stato di crisi del progetto americano che non dalle intemperanze e dai problemi legali dell’anziano tycoon. Cooptazione accolta con favore da un mondo trumpista, che pure per lungo tempo ha fatto dell’avversione a questi ambienti un tratto d’orgoglio, ma che oggi riconosce la necessità di darsi una strutturazione ideologica capace di sopravvivere alla figura del proprio fondatore. La scelta di Vance, ideale homo novus trumpiano e figlio tanto della provincia americana quanto di questo mondo intellettuale (testimoniato dai suoi trascorsi a Yale e dai suoi riconosciuti successi editoriali), incarna questa volontà di creare, in un futuro prossimo, un trumpismo post-Trump. 

Il Partito repubblicano, ormai egemonizzato dalla figura del magnate, attraversa dunque una torsione ideologica, che trova adeguato controcanto nello scontro elettorale con un Partito democratico che – dopo tanti tormenti interni – ha scelto Kamala Harris come sua portabandiera. Una contrapposizione che, nel costringere i repubblicani a ridefinire la propria strategia inizialmente pensata contro il presidente uscente Joe Biden, spinge il GOP ad accelerare la ridefinizione di se stesso. La sfida del 2024 offre così all’elettore americano due volti completamente diversi della stessa America. Sullo sfondo però pesa un interrogativo: riusciranno essi – a prescindere dall’esito di novembre – a trovare un modo per convivere entro la medesima idea di Paese?

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