I democratici si riorganizzano: Biden si ritira, Harris in campo

Il ritiro di Biden dalla corsa presidenziale apre una nuova fase per i Democratici, con Kamala Harris pronta a guidare il partito in un’America sempre più divisa.

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Geopolitica

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Domenica 21 luglio 2024 il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America, l’ottantunenne democratico Joe Biden, annuncia su X il suo ritiro dalla corsa presidenziale. Tutto cambia: è la seconda volta nella storia recente americana che un incumbent president rinuncia a ricandidarsi per il secondo mandato, nel bel mezzo della più tossica campagna presidenziale a memoria di americano. In un successivo discorso alla nazione, mercoledì 24 luglio, il presidente, gravato dai dubbi sulle sue capacità fisico-cognitive, ha spiegato la sua decisione con la volontà di “passare la torcia” a una nuova generazione di leader democratici, rappresentanti dalla vicepresidente Kamala Harris.  

Ultimo esponente di quella silent generation che ha visto il successo del sogno (imperiale) americano post-bellico, Biden ha potuto – come non ha mancato di evidenziare nel suo discorso – incarnare quell’abbondanza di opportunità che ha portato il figlio di un rivenditore di auto usate irlandese-americano del Delaware a divenire il presidente degli Stati Uniti, senza particolari meriti economici, di appartenenza sociale, “accademici”. Sleepy Joe, come affettuosamente soprannominato dal suo rivale Donald Trump, rappresenta dunque l’ultimo alfiere di quell’american dream in cui l’America oggi stenta a riconoscersi.

Di tutt’altra natura il background della sua vice, chiamata a succedergli anzitempo, a testimoniare i profondi cambiamenti in cui è incorso il corpo sociale che rappresenta l’elettorato del Partito democratico. Californiana, liberal, figlia cinquantanovenne di eminenti accademici di provenienza afro-indo-giamaicana (e dunque primo potenziale presidente figlio di immigrati di prima generazione), Kamala Harris raccoglie il testimone di una storia interrotta dalla vittoria di Trump nel 2016: quella di Barack Obama, figlio anch’esso di quell’America secolare, progressiva e multietnica che abita le regioni costiere della greatest country, la “più grande nazione” a stelle e strisce. 

Passaggio che era già stato prefigurato al momento della selezione del ticket durante la campagna del 2020, quando lo stesso Biden si definì un “presidente di transizione”, teso cioè a gestire la staffetta tra la vecchia guardia e una nuova classe di dirigenti democratici. Confermato anche dal ruolo che, secondo i retroscena, avrebbe avuto l’ex presidente nella gestione del ritiro dalle scene di Biden e nella successiva candidatura unitaria della Harris.

Cosa significa questo nel contesto di una crisi sistemica che si riflette nello sconvolgimento del tradizionale assetto partitico americano?

Il Partito democratico convive da anni con un problematico rapporto con il mondo (prevalentemente bianco) del Midwest, ambienti storicamente fedeli al voto democratico ma interessati da un crescente malessere sociale. Disaffezione figlia della de-industrializzazione e in generale del percepito abbandono delle zone interne e rurali del paese a favore degli interessi e delle priorità delle regioni costiere e urbane. Oggi il grande partito del liberalismo americano sembra aver abbracciato la sua “vocazione oceanica”, al punto di trasformare la West Coast nella culla della sua élite politica, laddove un tempo la California aveva dato i natali ai successi politici di nomi di grido della Destra statunitense, come Richard Nixon e Ronald Reagan. Transizione non semplicemente geografica ma di pensiero: in un partito nei cui ranghi oggi la classe media risulta in posizione preminente rispetto all’antico elettorato working class, il partito si è radicato su quelle coste da cui si dirama quella globalizzazione garanzia esistenziale dell’impero non dichiarato e – per lungo tempo – della prosperità della stessa middle class americana. Questa richiesta di rappresentanza politica è un elemento che accomuna l’intero spettro politico americano, dalla rivolta populista (di successo) di Donald Trump all’interno del rivale Partito repubblicano all’ascesa dell’insurgent della classe operaia democratica Bernie Sanders. Domanda di spazio, nei nomi e nelle policies, che già indusse l’amministrazione Biden a far proprie molte battaglie protezioniste del suo predecessore (per esempio, attraverso l’espansione del sostegno all’industria made in USA e al rafforzamento dei dazi contro la concorrenza straniera) e che oggi rende esiziale per la tenuta del Partito democratico la scelta di un compagno di corsa per la californiana Kamala Harris che riequilibri lo sbilanciamento “oceanico” portato dalla sua candidatura.

Alla base, tuttavia, rimane la scommessa piazzata a suo tempo con la vittoria di Barack Obama nel 2008, sull’onda della stanchezza imperiale sperimentata in Medio Oriente e – soprattutto – della crisi dell’american dream esplosa con il disastro dei mutui subprime nel 2007 e i conseguenti strascichi sociali che questo comportò per milioni di famiglie americane private della casa e di una prospettiva sostenibile di futuro, in quello che una volta era il Paese dove tutto era possibile. Una visione che, riconoscendo per la prima i problemi legati al modello della globalizzazione, offriva al corpo sociale da questa ferito la compensazione del welfare, processo non a caso avviato con il lancio dell’estensione della copertura sanitaria avvenuto con l’Obamacare nel 2010. Una concezione radicalmente nuova dei rapporti sociali del grande (non) impero americano, che va a toccare direttamente la stessa idea di Paese che gli americani hanno di sé. Tale assunto, alla base della creazione della cosiddetta “Obama coalition”, cioè del Partito democratico come casa naturale dell’elettorato femminile, giovanile, di colore e di recente immigrazione, a cui aggiungere una recuperata (grazie al sostegno pubblico) ex base depressa situata tra gli Appalachi a est e le Montagne Rocciose a ovest, non ha tuttavia colto un elemento dirimente per molti cittadini del Midwest. Mentre infatti la provincia americana vede nella globalizzazione l’elemento centrale del proprio declino, i democratici leggono questa come modello complessivamente positivo e sostanzialmente ineludibile, con ricadute negative incidentali da correggere, ma soltanto per poterne meglio godere i frutti. Giudizio inevitabile da parte di una classe dirigenziale liberale che è nata da questo processo globale, a cominciare – in senso letterale – dallo stesso Obama, figlio di un giovane studente kenyota immigrato in America per completare i suoi studi universitari e cresciuto, nella sua infanzia, con una famiglia multietnica e multireligiosa a cavallo delle Hawaii e delle Filippine. Un background e una narrativa di Paese che risultò tanto incomunicabile con la controparte non costiera della popolazione, da creare terreno fertile per illazioni sulla sua effettiva “americanità” poi non a caso sfruttate da quel Trump che riuscì a intercettare questo smarrimento e che proprio col birtherism (la credenza politica cospirazionista secondo cui Obama non sarebbe nato negli Stati Uniti, bensì in Kenya) si costruì una reputazione nella Destra americana. 

Questa faglia risulta tanto evidente nel raffronto tra i risultati dell’amministrazione Biden e la sua effettività nel comunicarli al pubblico statunitense. Riconoscendo la necessità di consolidarsi internamente di fronte al deflagrare dell’insoddisfazione domestica palesatasi col voto del 2016, il presidente in carica ha investito buona parte del suo capitale politico interno per varare provvedimenti di ampio respiro a sostegno di quel tessuto industriale americano per lungo tempo trascurato. L’Inflation Riduction Act del 2022 e il successivo CHIPS and Science Act dello stesso anno hanno visto investimenti senza precedenti nella promozione dell’industria manifatturiera statunitense e della ricerca tecnologica dei grandi poli di innovazione a stelle e strisce, rispondendo così non solo a una necessità sociale ma anche a un imperativo geopolitico dettato dalla concorrenza con la Cina. Sulla stessa narrativa si innesta la postura insolitamente favorevole al mondo sindacale americano adottata da Biden e mostrata pubblicamente durante lo sciopero generale del settore automobilistico del 2023. Prese di posizione anche decise, ma che non sono riuscite a scrollare di dosso al Partito democratico l’immagine di centro di interessi consortile avulso dal Paese reale e “partito della globalizzazione buona”, cavallo di battaglia ideale per un conservatorismo americano che sta facendo proprie le istanze di quei delusi che in questo processo individuano uno sconvolgimento nocivo della propria esistenza. Si tratta di quella dicotomia tra il “liberal San Francisco type” (copyright del Partito repubblicano sin dai tempi di Reagan) e un’America profonda, rurale e suburbana, che oggi i trumpisti agitano come una clava contro la candidatura di Kamala Harris. La narrazione trumpiana sostiene infatti che questa “globalizzazione buona” perorata dai democratici oggi sia in realtà la ragione stessa della crisi della un tempo grande e unita famiglia americana. Mostrarsi specchio di una società unità è quindi priorità assoluta per il ticket del Partito democratico, anche e soprattutto attraverso la scelta di un candidato vice di Harris che rappresenti adeguatamente le istanze di questo macro-spazio che otto anni fa che si è preso il centro del dibattito nazionale e che non sembra più intenzionata a lasciarlo.

Aggiornamento: La recentissima notizia della scelta democratica di puntare sul governatore del Minnesota Tim Walz conferma la centralità assunta dal macro-spazio continentale situato tra le due coste e la volontà del partito di riconciliarsi con esso. Tale opzione rivela infatti una strategia mirante a contendere al ticket repubblicano il sostegno delle classi lavoratrici del Midwest rurale e suburbano, svincolando al contempo il Partito democratico da critiche che lo tacciano di elitismo liberal, distante anni luce dai temi e dalle istanze di quell’America profonda da otto anni al centro del dibattito politico nazionale. La decisione di puntare su Walz è vista come un contrappeso ideale alla immagine, introiettata da alcuni settori dell’elettorato statunitense, di una Kamala Harris californiana, progressista, figlia di non americani, scarsamente connessa con le istanze delle aree rurali e industriali al centro del Paese. Il governatore del Minnesota, con le sue radici in Nebraska, la sua esperienza in competizioni elettorali difficili e la sua sensibilità da Midwest, sarebbe teoricamente in grado di contendere con efficacia al duo Trump Vance il sostegno degli swing states. Con Walz i dem ambiscono a presentarsi come una forza capace di federare e unire intorno a un nuovo progetto le diverse anime (variegate e divise) del Paese.

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