Verona 1989: il mio Nes e il soft power giapponese
Era all’incirca la tarda primavera del 1989, avevo 8 anni. Divoravo spedito il selciato del centro storico di Verona con il passo entusiasta delle grandi occasioni. Il mio obiettivo era il negozio di giocattoli di Galleria Pellicciai. Grazie a 237mila lire, sanguinosamente risparmiate negli anni, stavo per entrare in possesso della mia prima console videoludica: un Nintendo Entertainment System (NES) a 8 bit. In un vagito di indipendenza intellettuale, non scelsi la confezione con Super Mario Bros incluso, ma comprai solo la console, a cui affiancai il gioco Zelda II: The adventure of Link. Si dice che i bambini siano spugne in grado di restituire lo spirito del loro tempo e io non facevo eccezione: l’odore di plastica nuova che sprigionava la confezione appena aperta era inedito e travolgente per le mie narici. E siccome tutto ciò che era inedito e travolgente, da Michael Jackson a Tyson passando per Top Gun era americano, per me il Nintendo e Zelda erano americani. E lo erano inequivocabilmente, viste le schermate del gioco in inglese, lingua che a quel tempo ero lontanissimo dal padroneggiare. Passai l’estate a giocare a Zelda[1] aiutato da un’amica di famiglia milanese che masticava un poco quella lingua allora ostica e cercava di darmi una mano a comprendere le fasi e i passaggi del gioco – americano in quanto scritto in inglese – che ovviamente non finii mai. Era davvero un’altra epoca.
Molti anni più tardi scoprii che Zelda, Super Mario e il Nintendo non erano americani, bensì giapponesi. Nel 1989 presi inconsapevolmente parte a un fenomeno globale dalle molteplici implicazioni: il Giappone stava unendo la propria creatività e tradizione culturale con tecnologie importate dagli Stati Uniti, creando prodotti in grado di garantirgli un soft power globale. Ma pur dominando nell’elettronica di consumo e nei videogiochi, il Giappone non possedeva un’industria informatica profonda: dipendeva da sistemi operativi, architetture di CPU e infrastrutture software sviluppati negli Stati Uniti. Questa asimmetria non era casuale, ma il frutto di una precisa architettura geopolitica della dipendenza, che gli Usa costruirono nel secondo Dopoguerra per assicurarsi la leadership tecnologica nel blocco occidentale. La filiera digitale, dai semiconduttori ai sistemi operativi, rimaneva sotto il loro dominio, mentre ai partner regionali veniva consentito di eccellere nella trasformazione industriale e culturale dei prodotti finiti. È oggi possibile inquadrare la dinamica appena descritta in termini economici e geopolitici, nel contesto di un technology transfer non solo in ambito videoludico, ma anche industriale, effettuato dagli States verso i loro alleati (e non solo, o non completamente, vedi Cina) nell’ambito della Guerra Fredda. L’obiettivo di fondo era duplice: consolidare una catena del valore globale sotto regia americana, e nello stesso tempo impedire la nascita di autonomie strategiche reali nelle aree periferiche del sistema. Videogiochi, televisori e microchip diventavano così strumenti di grande valenza in un’epoca in cui la penetrazione del mercato coincideva con l’esportazione di un modello culturale.
Oggi l’industria videoludica si è trasformata in un colosso che ha fatturato 187,7 miliardi di dollari nel 2024 a livello mondiale[2], circa sei volte i guadagni dell’industria cinematografica. In questo excursus sulla storia globale dei videogames vedremo come da quei primi trasferimenti di know how tecnologico si siano delineate le traiettorie odierne: la svolta protezionistica Usa degli ultimi anni, l’emergere di un ecosistema cinese totalmente autosufficiente, il ruolo di un Europa grande consumatrice, priva di un comune disegno strategico. Oggi i videogiochi sono uno strumento importantissimo di penetrazione e pedagogia culturale, addestramento militare e civile, un moltiplicatore di expertise direzionabile su altri campi. Ma già negli anni Settanta e Ottanta i videogiochi divennero strumenti di potere culturale, economico e politico. Non solo intrattenevano milioni di persone, ma diffondevano modelli di pensiero, valori e gerarchie, plasmando l’immaginario globale secondo logiche precise: chi produceva i giochi dettava le regole, chi li consumava le interiorizzava. Oltretutto i simulatori militari, i software educativi, e in tempi più recenti le piattaforme di realtà virtuale e intelligenza artificiale, derivano direttamente da tecnologie e competenze sviluppate per i videogiochi. Questi ultimi, pur nella loro apparenza ludica, sono stati e sono anche strumenti di addestramento e persuasione culturale.
L’era del know-how condiviso: come gli USA plasmarono l’industria globale
Gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sono stati segnati da una competizione geopolitica tra blocchi in cui la tecnologia assunse un ruolo strategico. In questo quadro gli Usa si avvalsero del suo trasferimento per consolidare la propria rete di alleanze internazionali, mirando al rafforzamento tecnologico e industriale di Paesi gravitanti nella loro orbita, a cui attribuivano una valenza strategica particolare. Ne sono esempi eclatanti Giappone, Germania ed Italia, ex nemici sconfitti nel secondo conflitto mondiale. Per inquadrare il fenomeno in una cornice più ampia, basti pensare che Olivetti in Italia ottenne licenze americane per componenti elettronici e personal computer, divenendo per un periodo un polo tecnologico europeo. In Germania Ovest, simili trasferimenti favorirono aziende come Siemens, Volkswagen e Basf. In Corea sorsero giganti come LG e Samsung. Il Giappone, in particolare, ricevette tecnologie strategiche nei semiconduttori e nell’elettronica, che integrò con il proprio immaginario culturale, producendo beni di massa e un soft power globale. Nintendo, originariamente produttore di banalissime carte da gioco, ha venduto nel suo ciclo di vita 61,91milioni di console Nes: titoli come Super Mario Bros son divenuti simboli di un successo culturale globale, che a tutt’oggi si riverbera nel presente. L’altro grande protagonista del periodo fu il concorrente Sega con la sua console Sega Master System, che vendette globalmente tra i 10 e i 13 milioni di esemplari. Prima che il Giappone emergesse come protagonista dell’industria videoludica, il mercato nordamericano subì una grave crisi nel 1983, nota come il “Atari shock”. Questa battuta d’arresto fu causata da una saturazione del mercato con console e giochi di bassa qualità, mancanza di controllo e da un calo della fiducia dei consumatori. Le vendite di videogiochi negli Stati Uniti crollarono da 3,2 miliardi di dollari nel 1982 a circa 100 milioni nel 1985, portando al fallimento di molte aziende del settore[3]. In Europa, invece, l’industria videoludica seguì un percorso differente: i computer domestici come il Commodore 64, l’Amiga e lo ZX Spectrum divennero piattaforme popolari per il gaming, favorendo una scena creativa e sperimentale, sebbene frammentata e tecnologicamente dipendente da componenti americani. Il Commodore 64 vendette oltre 17 milioni di unità, lo ZX Spectrum circa 5 milioni, l’Amiga circa 4,85 milioni.
L’assetto del technology transfer sperimentò una prima incrinatura negli anni ’80 con la cosiddetta “guerra dei chip”: il Giappone divenne leader nei semiconduttori, in particolare nelle memorie DRAM, preoccupando Washington. Gli Stati Uniti risposero con misure protezionistiche: nel 1986 fu firmato il Semiconductor Agreement[4], che prevedeva il contenimento delle esportazioni giapponesi (soprattutto DRAM) e l’impegno di Tokyo ad aprire il 20% del proprio mercato interno ai produttori stranieri. L’intento era arginare il dumping e riequilibrare l’accesso al mercato. Quella che sembrava una disputa commerciale si rivelò, in realtà, una battaglia per il controllo delle leve tecnologiche fondamentali. Il messaggio di Washington fu chiaro: i trasferimenti di know-how erano ammessi, ma il cuore dell’infrastruttura – i chip, le architetture, i sistemi – doveva restare in mani americane.
Anni ’90: l’ascesa del soft power giapponese e la ridefinizione degli equilibri globali
Nei primi anni Novanta non si assistette a una rottura formale del precedente assetto, ma si registrò una sempre più pervasiva importanza giapponese nel dettare le linee culturali del settore. Con la PlayStation (1994), Sony ridefinì estetica e percezione del videogioco a livello globale.[5] La console, distribuita su larga scala grazie all’adozione del CD-ROM, vendette oltre 102 milioni di unità entro il 2006[6] e fu veicolo di una nuova generazione di proprietà intellettuali giapponesi: Final Fantasy VII, Metal Gear Solid, Resident Evil, Silent Hill. L’immaginario giapponese, stratificato e postmoderno, si impose attraverso narrazioni, codici ed estetiche.
A ciò non si affiancò un reale dominio tecnologico: il Giappone non disponeva di un sistema operativo globale né deteneva il controllo sulle principali architetture informatiche.
L’influenza nipponica restò quindi culturale, non infrastrutturale. I contenuti poggiavano su un’infrastruttura dominata da Microsoft, Intel, AMD e dai protocolli TCP/IP sviluppati in ambito militare e accademico statunitense. Gli Usa facevano le fondamenta, il Giappone progettava le facciate. Ma le cose stavano per cambiare: a partire dal 1998, Microsoft avviò un progetto per costruire una propria console, la Xbox, come risposta esplicita all’espansione di Sony nel mercato domestico e giovanile. Il cuore della strategia americana restava però nel PC gaming: Windows 95, le DirectX, e le prime librerie grafiche standardizzate consolidarono il dominio Usa[7].
Nel frattempo, la Cina adottava un approccio opposto. Dopo un primo boom dell’importazione di console e titoli giapponesi, Pechino impose nel 2000 un blocco alla vendita delle console straniere, ufficialmente per motivi educativi, in realtà per costruire un proprio ecosistema regolato[8]. Tra il 1997 e il 2000 nacquero Tencent, NetEase e altre aziende strategiche, con l’obiettivo di controllare le infrastrutture, i contenuti e i dati. Mentre il Giappone esportava cultura su standard americani, la Cina preparava una sovranità piena.
L’Europa restava un mercato passivo. I tentativi locali (Commodore, Amiga, Infogrames) si erano esauriti o restavano marginali. Senza strategia unitaria e con frammentazione normativa, non nacque un’industria continentale.
Il decennio si concluse con un assetto definito: gli Stati Uniti mantenevano il controllo dell’hardware e dell’infrastruttura, il Giappone esercitava una leadership nei contenuti, e la Cina iniziava un processo di chiusura selettiva finalizzato all’autosufficienza strategica. Il mondo dei videogiochi anticipava così quella frammentazione dell’ecosistema digitale che si sarebbe consolidata nel ventennio successivo.
Anni 2000: il ritorno americano, la crisi giapponese e l’emergere della Cina
Il decennio 2000–2010 rimescolò le gerarchie dell’industria videoludica. Gli Stati Uniti, mantenuto negli anni Novanta il dominio delle infrastrutture digitali (architetture, sistemi operativi, protocolli), si espansero al piano dei contenuti e delle piattaforme.
Con la Xbox (2001) di Microsoft per la prima volta un colosso informatico USA puntò alle console domestiche. Nel 2002, Xbox Live introdusse un sistema online a pagamento con infrastruttura proprietaria e account centralizzati, che trasformò l’esperienza videoludica da evento locale a ecosistema persistente[9]. Xbox Live superò il milione di iscritti[10] nel 2004 e raggiunse i 10 milioni 4 anni dopo[11]. Il sistema proprietario inaugurava un modello chiuso gestito da server aziendali. Il giocatore non possedeva più il gioco: vi accedeva tramite licenza e account. Il passaggio dal supporto fisico alla piattaforma come ambiente sovrano era sancito.
In parallelo i titoli statunitensi divennero egemoni nel mercato occidentale: Halo 2 (2004), Call of Duty 4: Modern Warfare (2007) e Grand Theft Auto: San Andreas (2004) ridefinirono l’immaginario del settore. Il soft power americano si esprimeva quindi non solo nell’hardware e nei protocolli, ma anche nel contenuto: guerre contemporanee, criminalità urbana, distopie ciniche e pervasive. Giochi come America’s Army non sono solo intrattenimento, ma strumenti retorici che codificano modelli di guerra e cittadinanza sottesi[12].
Sul piano tecnologico, gli Stati Uniti consolidavano il loro dominio attraverso motori grafici come Unreal Engine 3 di Epic Games, che divenne lo standard per i videogiochi ad alto budget[13].
Fu nel 2003 che Valve lanciò Steam, piattaforma di distribuzione digitale che rivoluzionò l’intero settore PC, smaterializzando i supporti fisici e imponendo un modello centralizzato per aggiornamenti, DRM e commercio online. Con oltre 20 milioni di utenti attivi già prima del 2010, Steam divenne il nodo principale della distribuzione videoludica su PC, rafforzando l’egemonia infrastrutturale statunitense. Con Steam, Valve centralizza la distribuzione, l’aggiornamento e la validazione dei titoli, imponendo DRM, licenze d’uso e tracciamento. Con Steam, il videogioco non è più un bene da acquistare una volta per tutte: è un servizio erogato dentro una piattaforma proprietaria, dove ogni accesso, aggiornamento e licenza dipende dal controllo di chi gestisce l’infrastruttura. È qui che la circolazione del know-how si interrompe: la tecnologia diventa servizio, il servizio diventa potere. In questo decennio si chiude definitivamente il paradigma inaugurato nel secondo dopoguerra: gli Stati Uniti non esportano più know-how, ma vendono ambienti operativi controllati. La tecnologia smette di essere una filiera condivisa e diventa un’infrastruttura strategica a presidio nazionale.
Nel frattempo, il Giappone rallentava. Sony, dopo il trionfo della PlayStation 2, fece inizialmente fatica con la PlayStation 3, lanciata nel 2006 a un prezzo elevato e con un’architettura complessa. Xbox 360, uscita un anno prima, guadagnò rapidamente terreno grazie a una piattaforma più accessibile e a un ecosistema online più maturo, ponendo per la prima volta una seria minaccia alla supremazia globale di Sony. Anche se le vendite complessive della PS3 finiranno col superare quelle di Xbox 360 di pochi milioni di unità[14], la percezione di leadership tecnologica e narrativa si spostò verso l’America.
La Nintendo Wii, anch’essa del 2006, ottenne uno straordinario successo commerciale grazie al motion control e all’accessibilità: 22,5 milioni di unità vendute solo nel 2010[15]. Ma nel puntare sull’inclusione di nuovi pubblici e sull’interazione fisica, Nintendo si allontanava dalla fascia strategica dei giocatori esperti e fidelizzati, perdendo influenza culturale proprio mentre Microsoft e le produzioni americane guadagnavano terreno.
In parallelo, la Cina elaborò una traiettoria del tutto autonoma. Dopo il blocco ufficiale alla vendita di console straniere imposto nel 2000 — ufficialmente per tutelare i minori, in realtà per incentivare la nascita di un’industria nazionale — Pechino favorì lo sviluppo di un ecosistema domestico basato su PC, modelli free-to-play e piattaforme digitali soggette a controllo statale[16]. Emersero così due colossi: Tencent (fondata nel 1998) e NetEase (2001), che divennero leader assoluti del gaming online già a metà del decennio[17]. Giochi come Dungeon Fighter Online (2005) e CrossFire (2007), entrambi distribuiti da Tencent, raccolsero decine di milioni di utenti.
Il vero passaggio strategico si verificò alla fine del decennio, quando la Cina smise di difendere il proprio mercato e iniziò a penetrare in quello occidentale: nel 2009 Tencent entrò in Riot Games (League of Legends) e nel 2011 ne acquisì la maggioranza.[18]. Questo doppio movimento — barriere interne e primi investimenti esterni — definì il modello cinese negli anni 2000: non solo protezione, ma proiezione selettiva di potere tecnologico e simbolico, in un quadro sempre più competitivo rispetto all’egemonia statunitense. La Cina non sfidò direttamente il dominio USA: lo aggirò, lo assorbì, lo replicò.
L’Europa restava marginale. La frammentazione linguistica, l’assenza di una strategia industriale comune e il ritardo sul piano tecnico impedirono la nascita di una vera industria continentale. Un’unica eccezione si manifestava in Polonia, dove CD Projekt pubblicò nel 2007 il primo The Witcher, tratto da una saga letteraria nazionale[19]. Un segnale di fermento culturale, ma ancora lontano da costituire un ecosistema competitivo.
Il decennio si chiuse con una nuova mappa del potere: gli Stati Uniti dominavano piattaforme, motori e distribuzione, la Cina si costruiva un’industria sorvegliata ma autonoma, il Giappone rallentava. Il mondo dei videogiochi, da prodotto ludico, era ormai diventato uno strumento geopolitico complesso, fatto di infrastrutture, narrative e dati.
2010 ad oggi: ecosistemi nazionali e geopolitica dei dati
Il decennio 2010 segna una cesura strutturale. Dopo quarant’anni di asimmetrie globali fondate su trasferimenti controllati di know-how, l’industria videoludica si riconfigura attorno a due ecosistemi tecnologici sovrani: quello statunitense e quello cinese.
Il Giappone, protagonista assoluto della fase 1980–2000, perde centralità[20]. Nintendo ha mantenuto una forte presenza commerciale, ma ha progressivamente perso centralità nell’immaginario videoludico globale, orientandosi verso un pubblico più ampio e familiare, mentre altri attori definivano le tendenze culturali del settore. Sony viene inglobata nell’infrastruttura occidentale, condividendo ambienti di sviluppo, motori e modelli distributivi con gli Stati Uniti. Basti pensare che i principali titoli giapponesi per PS5, da Final Fantasy XVI a Gran Turismo 7, sono sviluppati in ambienti tecnici fondati su motori americani e integrati con store come Epic Games Store e Steam.
Negli Stati Uniti, il dominio si esercita non più sul prodotto, ma sull’infrastruttura. Motori grafici come Unreal Engine ed Unity, piattaforme di distribuzione come Steam ed Epic Games Store, ambienti di sviluppo cloud come AWS e Azure, ambienti console come Xbox o PlayStation SDK: tutto è integrato. Lo sviluppatore che vuole esistere sul mercato globale deve attraversare questi nodi americani, sottostare a licenze, pagare royalty, conformarsi a standard. Non si vende più una tecnologia: si concede un accesso. Non si costruisce più una filiera: si governa un perimetro.
Fortnite ne è l’esempio più evidente: un ambiente chiuso e regolato interamente da Epic Games, dove ogni interazione – dalla partita all’acquisto – avviene secondo condizioni definite dalla piattaforma.
Qui il gioco non è solo intrattenimento, ma anche spazio sociale e architettura cognitiva. Ogni gesto del giocatore — clic, movimenti, scelte — è tracciato, registrato, analizzato. La telemetria genera profili comportamentali, ottimizza il design, anticipa le risposte. In alcuni casi, questi pattern diventano indicatori riutilizzabili in contesti esterni, dalla salute mentale all’addestramento algoritmico[21].
Questo rende il videogioco una tecnologia strategica duale: mezzo di intrattenimento e insieme simulatore comportamentale, laboratorio di interfacce cognitive, vettore di sorveglianza commerciale e militare. Engine e ambienti nati per scopi ludici vengono oggi riutilizzati in addestramento militare, progettazione predittiva e simulazione industriale. L’US Army ha impiegato America’s Army e Virtual Battlespace per formare soldati americani; la NATO utilizza Unreal Engine per simulazioni avanzate. Unreal e Unity vengono oggi usati per costruire digital twin urbani, cioè repliche virtuali di ambienti reali su cui sperimentare decisioni logistiche e infrastrutturali[22]. A partire dal 2022, un nuovo fronte si è aperto nel dominio dell’infrastruttura creativa: l’integrazione dell’intelligenza artificiale generativa nei motori di gioco. Unity Muse, NVIDIA ACE e Inworld AI permettono di generare livelli, animazioni, dialoghi, NPC e comportamenti dinamici senza intervento umano diretto. Queste tecnologie, già integrate in Epic Games e Unity, promettono di ridurre drasticamente tempi e costi di sviluppo, ma accentuano la dipendenza da strumenti proprietari e da servizi cloud americani. Il game design, un tempo spazio di espressione autoriale, rischia di diventare una funzione algoritmica dentro architetture predefinite.
La Cina risponde con un modello opposto. Dopo aver bloccato le console nel 2000 e favorito l’ascesa di colossi come Tencent e NetEase, Pechino costruisce un ecosistema chiuso e profondamente integrato. Le piattaforme sono cinesi, i contenuti approvati dallo Stato, le meccaniche di gioco calibrate per obiettivi educativi, patriottici, sociali. Giochi come Honor of Kings o Game for Peace rappresentano un approccio soft power centripeto: non esportano valori, ma rinforzano coesione interna[23]. L’accesso al mercato è sottoposto a controllo: ogni titolo pubblicato in Cina deve avere una licenza, una localizzazione, un partner interno. Il tempo di gioco dei minori è regolato da algoritmi, le chat sono moderate automaticamente, i contenuti censurati secondo linee guida precise. Questa architettura domestica di protezione, però, si accompagna a una crescente estensione esterna. A partire dal 2011, Pechino ha iniziato a investire strategicamente nei principali asset videoludici occidentali: Tencent ha acquisito Riot Games (League of Legends), è entrata in Epic Games (Fortnite), Supercell, Activision Blizzard e Ubisoft. Secondo Reuters, nel 2021 Tencent deteneva partecipazioni in oltre 30 società videoludiche internazionali[24].
Questa espansione non si è limitata a un ruolo finanziario passivo. In diversi casi, le aziende partecipate hanno modificato contenuti o politiche per allinearsi a sensibilità normative cinesi: la Riot Games di League of Legends ha rimosso riferimenti LGBTQ+ in alcuni Paesi, mentre portavoce di Epic e Riot hanno evitato dichiarazioni critiche in contesti politicamente sensibili[25].
In definitiva, la strategia cinese nel videogioco combina la chiusura normativa del mercato interno con una presenza crescente nelle infrastrutture produttive occidentali. Non è solo un’espansione economica, ma un modo per esercitare influenza senza dover aprire il proprio sistema.
L’Europa, priva di piattaforme, motori o standard proprietari, esercita una forma di potere normativa. A partire dal GDPR (2018), passando per il Digital Services Act e il Digital Markets Act (2022–2023), l’UE impone cornici regolatorie alle big tech globali. Ma queste norme non si accompagnano a una capacità di infrastrutturazione: l’Europa regola piattaforme altrui, senza disporre di ambienti propri[26]. CD Projekt è un’eccezione polacca rilevante, ma dipende da tecnologie extraeuropee; Ubisoft è radicata in Francia, ma integrata nelle filiere nordamericane. È una sovranità legale senza autonomia tecnica. Esistono altre realtà europee che hanno ottenuto riconoscimento globale pur restando tecnologicamente dipendenti. È il caso dello studio svedese Paradox Interactive, noto per i suoi giochi strategici come Europa Universalis e Crusader Kings, o di Creative Assembly Sofia filiale bulgara di Creative Assembly, sviluppatrice di titoli come Total War Saga: Troy o ancora lo studio tedesco Crytek, sviluppatore di Crysis. Queste aziende testimoniano un potenziale creativo europeo che però si innesta in architetture produttive extraeuropee, confermando la difficoltà dell’Europa nel costruire un ecosistema autonomo.
La frammentazione dell’industria videoludica riflette il venir meno dell’idea che il gioco potesse costituire uno spazio condiviso tra culture. Dove un tempo il videogioco sembrava avvicinare mercati e linguaggi, oggi delimita confini strategici. Ogni blocco – USA, Cina, Europa – costruisce il proprio spazio, i propri codici, i propri comportamenti. I videogiochi non raccontano solo mondi alternativi: anticipano forme di governo, architettano logiche di potere, modellano soggettività e dati. La geopolitica digitale del XXI secolo passa anche da qui: da chi disegna le regole dell’universo in cui giochiamo.
Mondi giocabili
Negli ultimi cinquant’anni, l’industria videoludica ha attraversato tutte le fasi della globalizzazione tecnologica: il trasferimento guidato del know-how, la costruzione di filiere industriali ibride, la creazione di contenuti egemonici, e infine la chiusura selettiva degli ecosistemi. Oggi non esiste un mercato videoludico globale. Esistono blocchi strategici: gli Stati Uniti dominano l’infrastruttura e i dati; la Cina combina controllo interno e penetrazione esterna; l’Europa emana regole ma non produce piattaforme. Il Giappone conserva una rilevanza culturale, ma ha perso centralità tecnologica.
Il videogioco è diventato un vettore di sovranità, non solo uno strumento di intrattenimento. Chi controlla le architetture operative, le piattaforme, gli ambienti di sviluppo e i flussi informativi, stabilisce anche i confini del comportamento digitale. La geografia del potere si riflette nel codice.
Nel XXI secolo, la sfida non riguarda solo ciò che si gioca, ma chi decide come si gioca e cosa si impara giocando.
[1] https://www.youtube.com/watch?v=W-VUVvvlQK8
[2] https://newzoo.com/resources/blog/global-games-market-revenue-estimates-and-forecasts-in-2024
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_dei_videogiochi_del_1983
[4] https://www.nber.org/system/files/chapters/c8717/c8717.pdf?
[5] https://www.theguardian.com/games/2024/dec/03/playstation-at-30-the-console-that-made-video-games-cool
[6] https://sonyinteractive.com/en/our-company/business-data-sales/
[7] https://news.microsoft.com/source/1996/05/16/unparalleled-industry-support-for-gaming-on-windows-95-makes-it-the-gaming-platform-of-choice-for-1996/
[8] https://gizchina.it/2022/03/il-problema-della-cina-nei-videogiochi/
[9][9] https://www.windowscentral.com/gaming/xbox/the-7-best-moments-in-xbox-history
[10] https://news.microsoft.com/source/2004/07/15/microsofts-million-member-march/
[11] https://news.xbox.com/en-us/2008/01/07/xbox-live-announces-10-million-members/
[12] https://direct.mit.edu/books/monograph/4392/Persuasive-GamesThe-Expressive-Power-of-Videogames
[13] https://www.unrealengine.com/en-US/blog/gears-of-war-series
[14] https://www.vgchartz.com/article/250980/playstation-3-lifetime-sales-overtakes-the-xbox-360/
[15] https://www.gamespot.com/articles/ds-sales-top-144-million-wii-nears-85-million/1100-6287017/?utm
[16] https://www.uscc.gov/sites/default/files/Research/China%27s%20Digital%20Game%20Sector.pdf
[17] https://www.gamemakers.com/p/tencent-vs-netease-the-battle-of
[18] https://technode.com/2011/02/10/tencent-invested-us350-million-into-us-game-company-riot/
[19] https://witcher.fandom.com/wiki/The_Witcher_(game)
[20] https://asiaexpertsforum.org/jennifer-dewinter-nintendo-japanese-video-game-industry/
[21] https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC6658250/
[22] https://www.nature.com/articles/s41598-022-20178-8
[23] https://www.uscc.gov/sites/default/files/Research/China%27s%20Digital%20Game%20Sector.pdf
[24] https://www.reuters.com/markets/deals/tencent-shifts-focus-majority-deals-overseas-gaming-assets-growth-sources-2022-10-01/
[25] https://www.polygon.com/2019/10/9/20906405/fortnite-epic-games-tim-sweeney-political-speech-china-tencent-hong-kong?
[26] https://www.bruegel.org/podcast/eu-vs-big-tech-regulating-innovation-and-sovereignty