Roma strumentalizzata: il fascismo e l’uso distorto del mito romano

La strumentalizzazione del mito romano durante il Ventennio. Mito, ideologia e propaganda. Razzismo e mito imperiale. La romanitas e l’uso distorto della storia

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Il fascismo unì il culto della Roma antica con l’idea della Roma umanistica e risorgimentale, facendone il proprio mito fondante.
A partire dal 1921, la propaganda fascista si appropriò sistematicamente di simboli, miti e retorica dell’antica Roma per costruire la propria identità politica e culturale[1].

Negli anni ’20 Roma divenne, secondo il politologo Donatello Aramini, il mito che animò il fascismo: simbolo di forza, rigenerazione e spirito universale.
Nel 1922 Mussolini proclamò che Roma era il mito e il simbolo del fascismo, legando la rinascita italiana allo “spirito immortale” romano[2]. Pochi mesi dopo, la Marcia su Roma trasformò il mito in azione politica.

Il regime si presentò come erede della grandezza imperiale e portatore di una nuova civiltà, fondata sulla stirpe romana e su un’identità nazionale costruita attraverso la continuità con l’antichità[3].
Il mito si tradusse anche nello spazio urbano e rurale: la Via dell’Impero (1932) divenne simbolo monumentale del regime, mentre le campagne e le bonifiche esaltarono la figura del contadino come nuovo “guerriero romano”[4].

Mussolini si rappresentava come un nuovo Cesare, e la guerra d’Etiopia (1935–1936) rafforzò tale immagine[5]. Dopo la vittoria, nel 1936 il Duce proclamò “la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”[6].

La romanità e il fascismo: tra mito, ideologia e propaganda

La romanitas rappresentò una delle componenti fondamentali dell’ideologia fascista e della figura stessa di Benito Mussolini.

La romanità divenne uno strumento ideologico centrale, utile a definire l’identità politica del regime, la sua organizzazione, il suo stile di vita e i suoi obiettivi di espansione.

Il fascismo inventò propri rituali, come il saluto fascista e il “passo romano”, ma riprese anche numerosi simboli dell’antichità, tra cui il fascio littorio e l’aquila imperiale.

Nell’antica Roma i fasces lictoriae erano il simbolo dell’autorità dei magistrati: fasci di verghe legati attorno a una scure, portati dai littori sulla spalla sinistra, emblema di potere, legge e giustizia. Mussolini recuperò questo simbolo nel 1919, facendone l’emblema dei Fasci italiani di combattimento. Nel contesto fascista, il fascio divenne il segno dell’autorità assoluta del Duce e del controllo centralizzato sullo Stato. Così, un simbolo originariamente legato alla giustizia si trasformò nell’emblema dell’autoritarismo e della dittatura.

Ma fino a che punto giunse la strumentalizzazione del mito romano da parte del regime?

Secondo lo storico Emilio Gentile, essa fu profonda e sistematica: il mito di Roma divenne parte integrante del processo di costruzione del regime totalitario e della creazione di una vera e propria “religione politica”, una forma di sacralizzazione della politica radicale, che negava l’autonomia dell’individuo, imponeva il culto del capo e santificava la violenza come strumento di rigenerazione nazionale[7].

Il filologo Luciano Canfora sottolinea come il fascismo utilizzasse il mito romano per legittimare il carattere antidemocratico del regime, esaltare l’imperialismo coloniale, il mito del capo carismatico e la disciplina assoluta.[8]

Il regime fascista si fondò sulla concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo. Il partito divenne l’unico ammesso, e Mussolini instaurò una dittatura personale, eliminando ogni forma di opposizione e di controllo. Pur esistendo diverse correnti all’interno del partito, l’autorità del duce restò indiscussa.

Il confronto con l’antica Roma

Durante la Repubblica romana (509-27 a.C.) e il Principato (27 a.C.-284 d.C.), Roma conobbe figure di grande autorità, ma inserite in un sistema istituzionale regolato e bilanciato. Nella Repubblica, i consoli – eletti annualmente – esercitavano un potere condiviso e si controllavano reciprocamente.

Con il Principato, l’imperatore divenne garante formale delle istituzioni repubblicane, ormai svuotate di significato. Nel Dominato (284-476 d.C.) il potere assunse un carattere assoluto, ma rimase comunque legittimato dalla tradizione e dal diritto romano, piuttosto che dal carisma personale.

Gli antichi romani, dunque, non affidarono mai il comando ad un individuo senza limiti: Giulio Cesare fu ucciso perché accusato di voler instaurare un potere illegittimo, mentre Ottaviano Augusto riuscì a consolidare la propria autorità mantenendo in vita le forme della Repubblica e proprio in ciò stette il suo capolavoro politico. Il dibattito politico, spesso aspro, costituiva parte integrante della vita pubblica.

Al centro della civiltà romana vi era il mos maiorum, il “costume degli antenati”, fondato sulla ricerca del bene collettivo. L’eroe romano non si distingueva per qualità eccezionali individuali, ma per la capacità di metterle al servizio della res publica. La vita del civis romanus si basava su austerità, disciplina e lavoro, rifiutando “il lusso e la mollezza orientaleggianti”. I valori fondamentali erano la virtus, la pietas, la fides, la maiestas e la gravitas: coraggio e forza morale, devozione verso la patria, gli dèi e la famiglia, lealtà, rispetto per la grandezza di Roma, fermezza e senso del dovere.

Il fascismo rovesciò completamente questi principi: al di là dei fiumi di retorica patriottistica, il potere non fu esercitato in nome della comunità, ma della volontà personale e carismatica del capo.

Colonialismo, razzismo e mito imperiale

La società romana, pur fondata sulla schiavitù, mostrò una notevole capacità di assimilazione: le popolazioni conquistate potevano ottenere la cittadinanza e partecipare alla vita politica e culturale dell’Impero[9].

Il colonialismo fascista, al contrario, si basò sullo sfruttamento e sull’oppressione delle popolazioni soggette, come accadde in Libia (1922-1932) e in Etiopia (1935-1936). La romanizzazione delle province era un processo graduale di assimilazione culturale, che portava alla diffusione della lingua, del diritto, delle istituzioni e dello stile di vita romano. Il colonialismo fascista, invece, impose una forma di dominio violento e razzista[10].

Negli anni Trenta, il regime introdusse una politica di discriminazione culminata nelle leggi razziali del 1938. La rivista “La Difesa della razza”, pubblicata dal 5 agosto 1938, celebrò la “romanità” in chiave razziale, contrapponendo l’uomo ariano e mediterraneo alle caricature di ebrei e africani[11].

Il mito dell’Impero Romano divenne così una giustificazione ideologica per le ambizioni imperiali e razziali del regime.

Con queste politiche, il fascismo completò la sua operazione propagandistica cominciata 16 anni prima, coniugando romanità e razza. Ma il presunto razzismo dei Romani fu un’altra invenzione del regime[12]

Il tentativo di “fascistizzare” la storia romana fu, dunque, una costruzione ideologica e propagandistica, che produsse una profonda distorsione della realtà storica[13].

Nonostante ciò, la propaganda fascista cercò di presentare la Roma mussoliniana come erede diretta dell’Impero, destinata a rinnovarne i trionfi[14].

La romanità divenne così non solo un simbolo politico, ma un pilastro dell’identità fascista, funzionale a legittimare la dittatura e le sue ambizioni imperiali.

Questa identificazione tra Roma e fascismo ha finito per oscurare la vera eredità storica di Roma, fondata su valori di civiltà, diritto e assimilazione.

Dopo l’8 settembre 1943, nell’immaginario collettivo l’idea di Roma è rimasta a lungo intrecciata con la memoria del fascismo e della sua strumentalizzazione politica. Oggi è necessario riconoscere e recuperare la vera romanità, restituendole il suo significato originario di cultura, valori, giustizia e universalità che il regime aveva deliberatamente travisato, al fine di superare finalmente il trauma profondo per il nostro Paese rappresentato dalla dittatura e dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale.


[1] Già dal 1915, Mussolini aveva maturato una visione positiva di Roma, influenzato dal nazionalista Enrico Corradini, che esaltava la potenza e la civiltà romana. Importante fu anche Margherita Sarfatti, critica d’arte in seguito amante del Duce, che attraverso il movimento artistico del Gruppo del Novecento promosse una modernità classica e orientò l’estetica fascista verso monumentalità e ordine.

[2] “Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia, e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e Italia sono due termini inscindibili. […] Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, il nostro simbolo, o se si vuole, il nostro mito. […] Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: Civis romanus sum”.

[3] Nel 1937, il ministro Cesare Bottai dichiarò che la nuova Roma doveva essere “italiana e fascista”, unendo l’eredità di Augusto e Gregorio Magno.

[4] Si ricordano le battaglie sul grano del 1925 e le bonifiche dell’Agro Pontino (1928-1935): dal piccone all’aratro alla spada il duce del fascismo tracciava il suo solco politico e simbolico nel nome di Roma. 

[5] Il primo marzo del 1936 D’Annunzio scriveva a Mussolini:” Tutta quanta l’Irta Etiopia deve inesorabilmente diventare un altipiano della cultura latina”.

[6]  Parole pronunciate dal Duce il 9 maggio 1936, nel discorso di proclamazione dell’Impero:

 “L’Italia ha finalmente il suo impero. Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della

volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante

quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani,

gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e

si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita.

Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia. Questo è nella tradizione di

Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino”.

Scriveva di nuovo il vate il 26 settembre del 1936 al Duce: “Ti abbraccio e ti domando di morire per la tua causa che è la mia. Ed è quella del genio latino indomito. Carico d’anni e sazio di solitudine, voglio alfine morire per la nuova antica Italia”. Nella Mostra Augustea della Romanità (1937–1938), esposizione culturale che si tenne a Roma al Palazzo delle Esposizioni, che celebrò iil genio latino indomito, spiccava un’epigrafe “Italiani, fate che le glorie del passato siano superate da quelle dell’avvenire.”

[7]  Così Emilio Gentile, massimo storico del fascismo: “forma di sacralizzazione della politica che ha carattere esclusivo e integralista; non accetta la coesistenza con altre ideologie e movimenti politici, nega l’autonomia dell’individuo rispetto alla collettività, prescrive come obbligatorie l’osservanza dei suoi comandamenti e la partecipazione al culto politico, santifica la violenza come legittima arma di lotta contro i nemici e come strumento di rigenerazione.”

[8] https://ilsud-est.it/cultura/2022/10/31/il-mito-di-roma-durante-il-fascismo/

[9] https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/roma-antica-e-fascismo-un-rapporto-mendace/

[10] https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/roma-antica-e-fascismo-un-rapporto-mendace/

[11] Il ministro Arrigo Solmi nel primo numero della rivista scrisse di una presunta “autonomia biologica e spirituale” del popolo italiano, chiamato a una “missione storica consacrata dagli dèi”, di cui la conquista dell’Etiopia era il primo passo.

Nel discorso di Trieste del 18 settembre 1938, Mussolini richiamò ancora una volta Roma come “faro di civiltà” che aveva tracciato confini e dato leggi al mondo. “Un problema di scottante attualità è quello razziale. Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso. È in relazione con la conquista dell’Impero. Poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio. E per il prestigio occorre una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”.

[12] Interessante notare come alcuna propaganda post-fascista vede nell’Editto di Caracalla 212 D.C e nel concedere la cittadinanza agli stranieri la causa della caduta dell’Impero Romano. “Un semibarbaro spiana la via ai Barbari” così l’articolo di Almirante sul primo numero della Rivista della Razza.  In realtà consenti all’Impero di prolungare la sua vita per secoli ancora.

[13] https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/roma-antica-e-fascismo-un-rapporto-mendace/

[14] https://www.englesprofili.it/engles3/englese3.fabersoft.net/index0df2.html

Il mito di Roma si fuse con l’ideale di militarismo, giovinezza, azione e vigore fisico, valori centrali dell’Italia fascista.   Viene rievocato dal fascismo soprattutto in quanto simbolo di aeternitas, cioè come radice ideale di una continuità imperiale in cui la nuova Roma intende inserirsi. Il richiamo alle radici romane non assume tratti di reazionaria nostalgia, ma si presenta come una proiezione verso il futuro, inquadrata in un destino imperiale e volta a trasformare gli italiani nei Romani della modernità

Mussolini non puntava al ritorno al passato, bensì intendeva progettare un mondo nuovo, moderno, i cui cambiamenti radicali dovevano essere legittimati dalla Storia.  L’ideale di romanità era un modello di coesione sociale: il romano della modernità era un individuo assorbito nel partito, nella società di massa, un cittadino soldato assuefatto allo Stato, entità superiore all’individuo. Così si diffuse il mito della Terza Roma: dopo i cesari, i papi, venivano i fascisti, arrivati per proiettare l’Impero verso un futuro di gloriosa potenza.

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